Anoressia

Ho voluto così denominare l’anoressia mentale come una difesa paranoide intra-personale
in cui l’affermazione del proprio potere […]
viene condotta nelle istanze intra-personali, nella lotta con il corpo.
(Selvini Palazzoli, 1981/2006, p. 103).

L’anoressica […] rimane rigidamente fedele alla regola familiare,
ovvero che nessun membro può assumere la leadership nel proprio nome.
(Selvini Palazzoli, 1981/2006, p. 239, corsivo nell’originale)

Non fosse per l’indicazione bibliografica, potremmo attribuire queste due affermazioni a due persone diverse, con punti di vista profondamente divergenti. Ma non è così. Si tratta infatti della stessa voce, quella di Mara Selvini Palazzoli, a distanza di pochi anni, quelli del suo passaggio dalla terapia dinamica individuale a quella sistemico-familiare. Che cosa ha generato una tale rivoluzione nel punto di vista sull’anoressia mentale di una delle più valide esperte nel campo dei disturbi alimentari? La risposta risiede nella domanda stessa: è stato infatti proprio l’incontro con questo genere di psicopatologia a “costringere” Selvini Palazzoli ad abbracciare l’epistemologia e la pratica clinica sistemico-relazionale familiare. Dall’altra parte del mondo, a partire dagli anni Sessanta, un altro pioniere della terapia sistemico-relazionale, Salvador Minuchin, stava lavorando con successo con famiglie con disturbi alimentari, mettendo a punto alcuni dei concetti e degli strumenti di intervento che sarebbero poi entrati nel bagaglio dello psicoterapeuta sistemico.

Accanto alle psicosi, i disturbi alimentari hanno contribuito in maniera rilevante alla definizione e alla diffusione del paradigma sistemico-relazionale e della terapia familiare; contestualmente, se c’è un ambito in cui le teorizzazioni sistemiche hanno saputo dire molto, si tratta proprio dei disturbi alimentari e quello sistemico-familiare è ben presto divenuto il modello di trattamento d’elezione per questo genere di psicopatologie. L’efficacia di questo modello nella cura di questi disturbi è del resto dimostrato da alcune recenti ricerche (Carr, 2009; Eisler et al., 2000; Eisler, Simic, Russell, & Dare, 2007; Le Grange, Lock, & Dymek, 2003; Lock & Fitzpatrick, 2009; Lock et al., 2010) e il National Institute for Health and Clinical Excellence britannico raccomanda l’utilizzo della terapia familiare per il trattamento dei disturbi alimentari (NICE, 2004). L’intreccio fra la storia dei disturbi alimentari e quella del modello sistemico-relazionale non è certamente frutto di una coincidenza; è infatti probabile che i modelli psicoterapeutici informino le sindromi cliniche, tanto quanto queste contribuiscono alla nascita e allo sviluppo delle teorie e delle tecniche psicoterapeutiche (cfr. Ugazio, 1998; 2012). Quali presupposti del modello sistemico sono consonanti con il funzionamento delle famiglie in cui si sviluppa un disturbo alimentare e rendono questo approccio così efficace nel trattamento di questo genere di psicopatologie?

Una delle idee cardine dell’approccio sistemico-relazionale è quello di “soggetto contestuale” (Bateson, 1972), secondo cui un individuo non esiste e non è osservabile se non all’interno dei contesti relazionali di cui è parte, primo fra tutti, ma non unico, la famiglia. Vissuti, emozioni e comportamenti del singolo hanno un significato soltanto se letti alla luce dei sistemi di relazione cui egli appartiene. Secondo questo punto di vista, dunque, il tenace digiuno di un’anoressica o l’incontrollabile abbuffata di una bulimica altro non sono che comportamenti, atti comunicativi che rivelano un disagio non solo di chi li esprime, ma anche e soprattutto del contesto relazionale cui appartiene il portatore del problema.
Per il clinico sistemico, il disturbo alimentare non riguarda la sfera intrapsichica o il singolo individuo, ma è l’espressione di un problema che risiede fra le persone. Ma non solo: il comportamento sintomatico del soggetto è visto non soltanto e non tanto come un esito di pattern relazionali problematici, ma come un tentativo di risolverli, una mossa disperatamente creativa che, a caro prezzo per il soggetto che esprime il disagio, talvolta consente ai suoi familiari di ridimensionare altri problemi, quando non addirittura di superarli. Naturalmente, tutto questo avviene in modo per lo più inconsapevole, ma emerge chiaramente durante la psicoterapia, quando il terapeuta ricostruisce assieme al paziente e ai familiari gli effetti e i cambiamenti che il sintomo ha portato nei singoli individui, ma primariamente nelle configurazioni relazionali attuali e nelle emozioni in gioco fra i componenti della famiglia. Il sintomo è dunque una chiave d’accesso alla comprensione del funzionamento familiare, dei conflitti e delle alleanze fra i soggetti, dei vincoli e delle risorse del sistema relazionale, della storia dei legami familiari e delle emozioni in corso.

Per il terapeuta sistemico un sintomo non vale l’altro; proprio perché l’attenzione del clinico è rivolta alla storia relazionale del sistema familiare e al momento presente, in cui il problema è divenuto parte integrante delle dinamiche relazionali, il disturbo alimentare non è un sintomo qualsiasi, dovuto ad un problema qualsiasi, in un momento qualsiasi, ma un comportamento rivelatore delle peculiari modalità di funzionamento di queste famiglie. Quali sono dunque queste modalità relazionali? E in che modo le specificità del modello terapeutico sistemico-relazionale cui ho fatto brevemente cenno vi sono connesse?
Come già accennato, la terapia sistemica ha saputo dire molto sui disturbi alimentari e ha ottenuto fin dalla sua nascita risultati notevoli con questo genere di patologie. Uno dei motivi risiede verosimilmente nel fatto che si tratta di disturbi i cui sintomi sono egosintonici. Digiuno, vomito, iper-attività fisica sono comportamenti perseguiti volontariamente e che necessitano di strenuo allenamento e autocontrollo. È perciò difficile che una paziente anoressica richieda spontaneamente una terapia, e ancor più una terapia individuale, considerato anche il fatto che il mantenimento dello stato di emaciazione è, per lo meno superficialmente, l’obiettivo primario e vitale della paziente. Non stupisce dunque che la terapia familiare si sia dimostrata adatta al trattamento dei disturbi alimentari, in quanto il primo contatto con il terapeuta avviene in genere attraverso familiari, ma anche e soprattutto perché per queste pazienti un lavoro individuale, soprattutto se focalizzato su aspetti intra-psichici, è una strada difficilmente percorribile.
Già Hilde Bruch (1973, 1978) e Selvini Palazzoli (1981/2006) avevano messo in luce la difficoltà nello stabilire un’alleanza terapeutica con queste pazienti attraverso un lavoro centrato su aspetti profondamente soggettivi ed emotivi. Tutto ciò è legato al funzionamento di queste famiglie, in cui la relazione con l’altro è, più che in altre psicopatologie, fondamentale per la definizione del senso di sé. Come sostiene Ugazio (2012), le identità dei membri di queste famiglie sono indissolubilmente legate, proprio perché è solo attraverso la relazione con l’altro che questi soggetti costruiscono la propria identità. Per i membri di queste famiglie, tuttavia, non è possibile giungere ad una definizione stabile di sé, in quanto ogni relazione è letta attraverso la metafora del potere e ogni conferma o disconferma di sé è vissuta in termini di superiorità o inferiorità rispetto all’altro. È proprio per questo motivo che in tali famiglie sono molto frequenti le dinamiche relazionali che i terapeuti della famiglia hanno ben posto in rilievo. Mi riferisco ad esempio alle dinamiche invischianti e ai tentativi di evitamento del conflitto (Minuchin, Rosman, & Baker, 1978), per lo meno di quello esplicito, al devastante vissuto di inadeguatezza personale e all’ipersensibilità alle critiche delle pazienti e dei loro familiari, all’elevata frequenza di rifiuti e alle laceranti dinamiche competitive e istigatorie che caratterizzano queste famiglie (cfr. Selvini Palazzoli, 1981/2006; Selvini Palazzoli et al., 1998; Ugazio, 2012).

Ugazio e collaboratori (2012; Ugazio, Negri, & Fellin, 2011) hanno osservato che nei contesti in cui si sviluppano disturbi alimentari c’è chi vince e chi perde, chi ha successo e chi fallisce, chi è determinato, autorevole, volitivo e chi invece è remissivo, passivo e rinunciatario. Sono proprio questi significati a connotare ogni relazione come una sfida, in quanto si è vincenti solo se e proprio perché si è in grado di imporre all’altro la propria definizione della relazione, mentre si è perdenti se ci si adegua alla definizione della relazione che l’altro impone. È attraverso questi particolari significati, cui corrispondono emozioni quali il vanto e la vergogna, il senso di efficacia e di inettitudine, che vengono definiti i rapporti e costruiti gli episodi rilevanti in questi contesti ed è proprio per il carattere comparativo di tali significati che fra i membri di queste famiglie è costante la lotta per la definizione della relazione.
Questi aspetti rimandano direttamente alle osservazioni con cui ho aperto questo contributo. È infatti la centralità della relazione in corso che caratterizza queste famiglie uno degli aspetti che rende la terapia sistemico-relazionale adatta ed efficace con questo tipo di patologie. L’attenzione alle dinamiche relazionali, ai conflitti, alle alleanze e alle coalizioni, ai confini familiari e all’interdipendenza dei diversi membri, così come la visione del sintomo come un problema fra le persone che caratterizzano l’approccio sistemico ben si coniugano con le modalità interattive e i significati attraverso i quali i membri di queste famiglie costruiscono la propria storia. Soprattutto inizialmente, la storia della terapia sistemica e quella dei disturbi alimentari hanno condiviso alcune premesse, prima fra tutte quella di un soggetto che non esiste se non inserito nel proprio contesto di appartenenza. Tutto ciò ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una grande risorsa per la terapia ed è certamente uno degli aspetti alla base del successo che l’approccio sistemico raggiunge nel trattamento dei disturbi alimentari. Le stesse pazienti, terribilmente in difficoltà quando si tratta di dare spazio e voce alle proprie intime emozioni, sono invece sorprendentemente competenti ed abili nell’osservazione delle relazioni, proprio perché parte di un contesto familiare in cui una tale abilità è esercitata, perché necessaria.
Al tempo stesso, tuttavia, il contesto terapeutico può divenire un nuovo campo di battaglia, a cui rischia di partecipare anche il terapeuta (cfr. Ugazio, 2012; Ugazio & Castelli, 2015). La relazione terapeutica, per sua natura asimmetrica, è inevitabilmente letta dai membri di queste famiglie in termini di superiorità/inferiorità e gli interventi del terapeuta sono, per lo meno inizialmente, vissuti come una sopraffazione o un abuso di potere, oppure interpretati come mosse atte a costruire un’alleanza con qualcuno contro qualcun altro. Il terapeuta rischia dunque di trovarsi nella scomoda posizione di antagonista. C’è però un’altra posizione possibile per il terapeuta, ovvero quella di alleato, e non più contro, ma per (Ugazio, 2012). Si tratta di percorso arduo, ma percorribile e certamente funzionale al processo terapeutico; del resto, la trasformazione dei vincoli in risorse promotrici di cambiamento è uno degli obiettivi della psicoterapia.

Ho fatto più volte riferimento alla famiglia, sia come unità di osservazione, sia come contesto di intervento. Non si tratta ovviamente dell’unico contesto relazionale che il terapeuta sistemico prende in considerazione quando ha a che fare con un paziente con disturbi alimentari. Certamente la famiglia rimane, per lo meno fino ad oggi, il tessuto relazionale primario per la maggior parte delle persone, ma è pur vero che la famiglia si trasforma e il modello di famiglia nucleare, stabile e definita, non è l’unico oggi esistente (si pensi ad esempio al numero crescente di famiglie “ricostruite”, ai casi in cui un bambino vive per una settimana a casa della madre e del suo nuovo compagno e per un'altra a casa del padre e della sua nuova compagna, magari con i figli di primo letto di quest’ultima). Esistono poi numerosi altri contesti di riferimento, come la scuola, il gruppo dei pari, la squadra di pallavolo, oppure la classe di danza, ecc; a questi si aggiungono, nel momento in cui insorge il disturbo alimentare, i Servizi che si attivano per la presa in carico del problema e, naturalmente, il contesto terapeutico stesso, che arriva ad assumere un ruolo di primo piano. Il terapeuta sistemico non può dunque sottrarsi dal prendere in considerazione, ovviamente nel caso in cui siano in maniera rilevante implicati nel problema, i diversi e variegati sistemi di relazione di cui il soggetto e la famiglia fanno parte, come del resto indica uno dei principi della terapia sistemica, ovvero la necessità di allargare il campo di osservazione per meglio comprendere i comportamenti (Watzlawick, Beavin, & Jackson, 1967).

La famiglia, anche quella allargata, rimante comunque il contesto di osservazione privilegiato per il terapeuta sistemico. Questo significa che il clinico sistemico lavora solo ed esclusivamente con tutta la famiglia? Nient’affatto e sarebbe ormai d’altro canto impossibile. Uno dei motivi risiede nei cambiamenti delle forme familiari cui ho già accennato, che rendono difficilmente praticabile un intero percorso terapeutico con la famiglia intera (cfr. Ugazio, 2006); tranne nei casi gravi, in cui la motivazione al trattamento è maggiore, difficilmente tutti i membri di una famiglia sarebbero oggi disponibili a presentarsi a tutte le sedute, dovendo magari sottrarre tempo e risorse ad importanti progetti individuali. Seppur il modello sistemico faccia costante riferimento alla famiglia e seppur quello familiare sia stato il setting prediletto dai sistemici, la terapia sistemico-relazionale non coincide con quella familiare e i terapeutici sistemici da tempo lavorano in setting individuali (cfr., ad es., Selvini Palazzoli & Viaro, 1988). Ugazio (2006) ha ad esempio previsto l’utilizzo dei setting alternati pianificati, in cui una fase di consultazione familiare, che può essere anche estesa, precede il lavoro terapeutico individuale, il quale è in genere poi seguito da una chiusura familiare. Le sedute individuali costituiscono dunque la fase centrale e più corposa del processo terapeutico, ma in fase di consultazione è stato possibile contestualizzarle all’interno di una cornice di sedute familiari, attraverso la connessione del sintomo individuale al funzionamento relazionale della famiglia intera.

Lo sguardo relazionale e l’attenzione alle dinamiche intersoggettive caratterizza dunque anche le sedute individuali; i cambiamenti nel singolo individuo, infatti, non avvengono a prescindere da quelli degli altri membri del contesto familiare, e viceversa. Le esperienze falsificanti (Ugazio & Ferrario, 1991) che il terapeuta propone al paziente, ad esempio, restituiscono informazioni sul funzionamento familiare e promuovono trasformazioni in tutti i membri della famiglia; i racconti della paziente riguardo ciò che avviene fra lei e la madre, il padre o i fratelli, ma anche fra i diversi familiari del proprio nucleo, sono sempre al centro della conversazione terapeutica con il singolo individuo.
I cambiamenti e la remissione del sintomo diventano dunque l’esito di un’impresa congiunta, un processo di costruzione di una nuova storia che tutti hanno condiviso e a cui ciascuno, con i propri vincoli e le proprie risorse, ha partecipato.

Riferimenti bibliografici

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